Passa ai contenuti principali

Le Decisioni degli Esperti (i Manager)

Ovvero: forse non siamo razionali quanto dovremmo o come pensiamo?

Qualche tempo fa lessi un libro molto stimolante, che ancora oggi consiglio: “Le decisioni degli Esperti - Psicologia cognitiva delle decisioni manageriali”, di Rumiati e Bonini, due psicologi sociali.
Vi si analizzano i bias cognitivi principali che fanno prendere decisioni poco razionali e ciascuno ci si può ritrovare per molti aspetti, certo a seconda del suo stile di pensiero.

Riassumendo brutalmente, la tesi del libro, è che chi più, chi meno, ma comunque tutti, nell’assumere decisioni importanti, magari sotto pressione, in mancanza di informazioni complete e con risorse limitate di tempo e di analisi a disposizione,tendiamo a essere condizionati da determinati processi psicologici di valutazione che sono ricorsivi e soggetti a distorsioni che dipendono dal nostro modo di approcciare la realtà (atteggiamento) e da come questa ci viene presentata (comunicazione).


Non solo, il testo dimostra anche che gli “esperti” tendono più della media ad essere soggetti a questo tipo di errori decisionali, che dipendono dalle cosiddette “euristiche” ovvero procedure psicologiche che permettono al decisore di semplificare un compito di decisione sulla base di intuito sviluppato con l’esperienza (“Sono un esperto, no? Facile!” E quindi non si fermano a razionalizzare il calcolo ma scelgono d’istinto).

Tra i bias si annoverano: problemi di valutazione economica, di valutazione del rischio, di decodifica delle informazioni a seconda della comunicazione legate alle modalità di presentazione dei dati ecc.
Faccio qualche esempio molto banale:
  • Ancoraggio, ovvero la tendenza che abbiamo a confrontare solo un insieme limitato di elementi, senza ampliare gli orizzonti. Per esempio confrontiamo i prezzi all’interno di un listino o di un gruppo di listini, difficilmente lo facciamo in senso assoluto, chiedendoci che valore dovremmo dare razionalmente all’uo o possesso di quell’oggetto/servizio.
  • Negligenza di probabilità: temiamo di più le cose improbabili ma eclatanti rispetto a quelle probabili e possibilmente perniciose. Un esempio può essere – di questi tempi – temere una catastrofe in Borsa (evento incontrollabile) e non preoccuparsi di assumere informazioni sulla propria banca o sul rischio di cambio di un particolare mercato estero, strategico per la nostra azienda. Oppure temere un atto di terrorismo  o un disastro aereo e non un incidente sul lavoro o in auto o un cancro (molto più probabili).
  • Fallacia di Gambler: Tendiamo a dare particolare importanza agli eventi del passato, credendo che influenzeranno in qualche modo i risultati futuri. Il classico esempio è il lancio della moneta. Dopo 5 volte che esce croce pensiamo sia più probabile che esca testa, ma non è così. La probabilità sul singolo evento “lancio della moneta” è sempre del 50%. Nella vita reale questa fallacia ci fa scommettere con gratuita leggerezza, anche più volte al giorno.
I bias sono molti, ma vorrei sottolineare che questo vale per le scelte autonome.
Per i manager la cosa si complica ancora di piùperché a contrastare le istanze razionali entrano meccanismi di gruppo e burocratici, dalla competizione fra pari in azienda a norme interne non scritte, alla valutazione delle priorità, alle sanzioni, alla propensione o meno dell’azienda all’innovazione ecc.
Insomma, la cultura aziendale quanto conta nelle nostre decisioni? 
Cosa serve per sbagliare meno e decidere meglio?
Vi lascio con questa domanda, in attesa di vostri spunti di riflessione e di esempi di vita vissuta. Grazie!
Chiara Tonon

Commenti

  1. l'hai fatta difficile stavolta! che la cultura aziendale influenzi l'operato dei suoi dirigenti è ovvio ed è considerato, giustamente (o no?), il segno distintivo della medesima.
    che questo porti ad errori di valutazione può anche essere, ma non è detto. certamente un miglioramento, nel processo di analisi ed adozione della valutazione, è auspicabile. l'unica strada che vedo percorribile è il turnover dei dirigenti. maggiori e differenti esperienze ciascuno riesce ad avere e maggiori saranno le possibilità di valutazione delle decisioni da prendere che questi avrà. paradossalmente finirà per non prendere alcuna decisione, avendo una sempre maggiore molteplicità di possibilità. ergo, restano in alternativa, i corsi di aggiornamento a cui inviare i propri dirigenti, da cui potranno attingere alle esperienze altrui, senza averle vissute. e questo credo sia un giusto compromesso ed buon viatico per il dirigente. ciao

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ciao, grazie per il tuo parere! Ho apprezzato la proposta di
      soluzioni, in particolare la formazione. Credo che, in generale, sia
      utile semplicemente ricordarsi di non decidere sempre sulla base della
      propria esperienza, ma fermarsi a ragionare un attimo fuori dagli
      schemi e confrontandosi. Anche il lavoro di team in questo senso è
      molto utile, no?

      Elimina

Posta un commento

Post popolari in questo blog

“Il cliente è un asset, non un bene consumabile”

Si può riassumere così, in termini aziendalistici, il valore della centralità del cliente nei processi di mercato.  “Il cliente è un asset, non un bene consumabile” Non si tratta "solo" di un tema di marketing, ma della consapevolezza che deve permeare tutte le funzioni aziendali se si vuole giungere al successo e far crescere il valore. Non basta un CRM, per la customer centricity (talvolta non serve neppure). Serve invece la voglia di incontrare i clienti, comprendere le loro esigenze e i loro obiettivi, capire come soddisfarli con prodotti e servizi, al prezzo corretto e distribuiti in modo accorto. Per funzionare davvero la customer centricity è un concetto che dovrebbe guidare l’evoluzione aziendale a partire dalla gamma, non solo riguardare i momenti di contatto con il cliente. Le persone si interessano a noi nel momento in cui parliamo con loro, di loro. Lo stesso vale sui mercati. Perché siamo sempre esseri umani in relazione con altri esseri umani.

Cambiare tutto o non cambiare niente, oggi?

In un contesto di mercati iper-competitivi e in rapida evoluzione come quello odierno, non porsi alcune domande, che potrebbero anche sembrare assurde o provocatorie, può generare disastri. Una delle cose che si dà per scontata in azienda è "cosa facciamo e per chi". Il core-business è un dato di fatto e tutto quello che esula è guardato con sospetto, a volte addirittura con disdegno. Un esempio? Se faccio macchine professionali per... (qualsiasi cosa, dal cucito alla cucina, dal lavaggio al giardinaggio), difficilmente prendo in considerazione l'idea di passare al mass market, al domestico, anche quando è poco presidiato. Perchè?  Perchè il prodotto di mass market è spesso percepito come meno pregiato o prestigioso. Ma, c'è un grande ma. Ho correttamente valutato le opportunità che potrebbero essere insite in un cambio di passo, oppure semplicemente lavoro come ho sempre fatto? Il più delle volte, ammettiamolo, non facciamo neppure un esercizio di stile, semplicement

L’importanza del feedback nelle azioni di marketing

Che senso ha qualsiasi azione se non si ottiene riscontro degli effetti che ha avuto? Nessuno fa una dichiarazione d'amore senza attendere la risposta. Nessuno si mette alla guida senza tenere sotto controllo ciò che accade davanti (e tutt’intorno) all’auto, nonché sul cruscotto. Nessuno cucina la cena per la propria famiglia senza attendere con gioia l’effetto del primo boccone. Un sorriso o un naso arricciato possono essere sufficienti, un complimento è sempre gradito. Si può quindi pensare di implementare delle azioni commerciali o di marketing senza chiedere dei risultati qualitativi e quantitativi , senza essersi prefigurati degli obiettivi , senza aver immaginato degli strumenti (anche imperfetti) per misurare gli effetti delle azioni stesse? Eppure in molte aziende, anche di grandi dimensioni, non c’è attenzione a questo genere di aspetti, specie se il marketing è confuso con la comunicazione, sineddoche così frequente, che pare consentire di rimandare